Libia, Renzi: «Non è il momento di un intervento militare»

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Il premier auspica: «Saggezza, prudenza e nessuna reazione isterica»
E chiede di aspettare l’Onu: «Le Nazioni unite sono più forti dei miliziani dell’Isis»Libia, Renzi: «Non è il momento
di un intervento militare»
Il premier auspica: «Saggezza, prudenza e nessuna reazione isterica»
E chiede di aspettare l’Onu: «Le Nazioni unite sono più forti dei miliziani dell’Isis»
«La situazione è difficile ma non è tempo per una soluzione militare». Così il premier Matteo Renzi è intervenuto, in un’intervista al Tg5, sulla linea del governo dopo gli ultimi sviluppi in Libia. «Il Paese è fuori controllo» ha detto il presidente del Consiglio che ha raccomandato «saggezza, prudenza e senso della situazione: non si passi dall’indifferenza totale all’isteria, alla preoccupazione irragionevole». «Da tre anni in Libia la situazione è fuori controllo – ha continuato – lo abbiamo detto in tutte le sedi e continueremo a farlo. Ma la comunità internazionale, se vuole, ha tutti gli strumenti per poter intervenire. La proposta è di aspettare il Consiglio di sicurezza Onu. La forza delle Nazioni unite è decisamente superiore alle milizie radicali». «In Libia – ha concluso Renzi – non c’è un’invasione dello Stato islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro».
Il colloquio con al-Sisi
Il premier Matteo Renzi ha avuto stamane un lungo colloquio telefonico con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Al centro la lotta contro il terrorismo, con particolare riguardo agli ultimi sviluppi della crisi libica e ai passi politici e diplomatici, si legge in una nota di Palazzo Chigi, «per riportare sicurezza e pace nel Paese».
L’attacco di Salvini
Il leader della Lega Matteo Salvini attacca il governo: «L’esecutivo Renzi è pericoloso, parla di guerra a vanvera e ha il ministro Alfano che dice che le mie parole sono incommentabili e stamani in un’intervista ammette che c’è la possibilità che tra i clandestini si nascondano terroristi». «Ho solo detto – ha continuato il leader leghista – di soccorrere e aiutare i clandestini in mare ma di non farli sbarcare». E infine un nuovo affondo contro il governo: «Parla di guerra e poi facciamo i traghettatori per conto dell’Isis?».
Meloni: «Ora stop all’accoglienza»
Sulla stessa linea la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che chiede di interrompere l’accoglienza ai profughi «finché l’Isis non sarà cacciato dalle coste libiche. L’Isis gestisce il traffico – ha detto Meloni – quindi stop totale all’accoglienza dei profughi finché l’Isis non sarà cacciato dal Nord Africa. Perché va bene tutto, ma i flussi migratori li vogliamo scegliere noi e non farceli imporre dagli integralisti».
Grillo: «In guerra ci vada Renzi»
«Se Renzie vuole la guerra ci vada lui con Napolitano. Vedendoli, l’Isis si farà una gran risata e ci risparmierà. No alla guerra in Libia». Lo ha scritto su Twitter il leader del M5S Beppe Grillo :«Non spetta al Governo decidere se entrare in guerra ma ancora al Presidente. Aspettiamo un monito dal Presidente, anche piccolo piccolo, al bulletto di Rignano. No alla guerra».
Nel Partito democratico
Nel Pd prime voci critiche all’eventualità di un intervento militare in Libia. L’esponente della minoranza Pippo Civati ha detto: «Si parla di combattere, a me questo linguaggio non piace e non penso che si debbano mettere le cose in questi termini. Consiglio a tutti prudenza, pensando che proprio la Libia pochi anni fa è stata oggetto di un’operazione militare non risolutiva».
Il dibattito in Parlamento
La discussione sulla situazione in Libia dovrebbe tenersi giovedì. «Troppo tardi, è inaccettabile» ha detto il capo dei deputati leghisti Massimiliano Fedriga. Il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta ha scritto alla presidente della Camera per chiedere che sia messo immediatamente in calendario un intervento del governo: «Gli ultimi giorni hanno rappresentato il momento di crisi peggiore da quando i fondamentalisti dell’Isis hanno preso di mira l’Europa». Sel intanto ha definito la sua posizione: «È necessario – ha dichiarato il capogruppo Arturo Scotto – un negoziato, coinvolgendo tutti gli attori della regione. Successivamente, si può procedere alla creazione di una missione di peace keeping sotto la direzione delle Nazioni Unite. Questa è la posizione che proporremo giovedì prossimo».
tratto da www. corriere.it

La strada stretta dell’ex premier e la partita dell’azienda di famiglia

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La rottura dell’accordo con Renzi va inquadrata oltre il recinto della politica. Gli amici: ha fatto più questo governo per le tue aziende che i tuoi ministri
ROMA Berlusconi non ha rotto il patto del Nazareno, ha rotto lo specchio che avrebbe dovuto magicamente trasformare la proiezione dei suoi desideri in realtà. È la fine di un incantesimo di cui Renzi si è servito prima di porre il suo «alleato di opposizione» dinnanzi al bivio del prendere o lasciare. E se è vero che agli occhi del leader di Forza Italia il premier ha assunto le sembianze di «una iena», è altrettanto vero che nell’ultimo lunedì di Arcore – quello dedicato ai figli e agli amici di una vita – c’è stato chi ha ricordato al padrone di casa come, «nonostante tutto, questo governo in un anno ha fatto per le nostre aziende molto più che i tuoi ministri in dieci anni».
Eppoi certo, l’opinione comune a quel desco era che – per quanto bravo e sveglio – di Renzi non ci si dovesse fidare ciecamente, sebbene il moto istintivo che appartiene a Marina Berlusconi non fosse un consiglio, tantomeno una critica rivolta al genitore, che invece in Renzi credeva e a Renzi credeva. Semmai è stato un gesto solidale in vista della decisione: «Fai la cosa giusta». E il padre, che si è sentito tradito, ha mandato in frantumi lo specchio, destandosi da un sogno che era a sua volta il sequel di un altro sogno.
Ma davvero era solo un sogno? Perché in tal caso la rottura tra il premier e l’ex premier andrebbe confinata nel recinto della politica, alla partita sul Quirinale: «E il patto – dice Berlusconi – è che non si sarebbe proceduto oltre se io non fossi stato d’accordo sulla scelta». Non c’è dubbio che abbia commesso degli errori nella trattativa, come sostiene Gianni Letta, secondo cui «non ci si siede al tavolo con un solo nome». Però alla vigilia del voto in Senato sulla legge elettorale – quando Renzi aveva estremo bisogno di Forza Italia – la vicesegretaria del Pd Serracchiani disse in un’intervista radiofonica che «il prossimo presidente della Repubblica lo voteremo insieme a Berlusconi».
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Le cose sono andate diversamente, anche se l’ex premier è convinto che Renzi abbia fatto male i conti con il successore di Napolitano, «perché lui pensa di trarne vantaggio, ma non sarà così. Mattarella è un cattolico integralista e alla lunga questa scelta gli si ritorcerà contro». Si vedrà, e comunque sono valutazioni che stanno ancora tutte dentro il perimetro della politica. Il punto è se c’era e c’è dell’altro, oltre l’intesa sulle riforme costituzionali e l’Italicum. Bisognerebbe forse seguire le tracce lasciate dall’avvocato-onorevole Ghedini negli ultimi tempi per verificare se quello di Berlusconi era davvero solo un sogno.
È un percorso punteggiato da indizi lasciati sul sentiero: senza andar dietro i boatos sulle modifiche alla legge Severino e sulla prescrizione, andrebbe capito come mai – a ridosso della sfida per il Colle – è stato perso del tempo per raccontare all’ex premier la storia del comandante partigiano comunista Moranino, scappato in Cecoslovacchia dopo una condanna per omicidio plurimo aggravato ai tempi della Resistenza, e graziato da Saragat appena salito al Quirinale. Ecco lo specchio dove Berlusconi vedeva i suoi desideri prender corpo. Era solo un incantesimo? Perché è stato Renzi a tracciare il solco del decreto fiscale, ed è andata la Boschi in tv a difenderlo. Perché il premier l’altra sera a «Porta a Porta» ha accennato all’affaire Telecom-Mediaset dopo aver detto che «sulle riforme non mi faccio ricattare da Berlusconi».
Nonostante questi segnali, il cristallo si è ugualmente rotto. E appena ieri se n’è sentito il frastuono, nel dibattito politico si è inserito un sottosegretario di solito silenzioso come il democratico Giacomelli, che nel governo ha una delega particolare, l’emittenza: «Sono dispiaciuto che si possa interrompere un clima positivo». Confalonieri conosce Giacomelli, una volta lo descrisse come «un politico pragmatico e lontano dai furori ideologici», e si disse perciò convinto della bontà della linea del governo, «improntata alla difesa delle aziende italiane, che sono un patrimonio nazionale».
Quando i suoi collaboratori gli hanno consegnato quel dispaccio di agenzia, il patron del Biscione si è chiesto se la dichiarazione fosse una casualità o un avvertimento, che ribalterebbe l’accusa sul conflitto d’interessi per venti anni addebitata a Berlusconi. «Lasciamo che la polvere si posi», si è limitato a dire, senza far capire quale risposta si fosse dato. Perché, se lo specchio si è rotto, in qualche modo il patto può ancora essere politicamente reincollato.
È Berlusconi che dovrà decidere, dopo aver urlato l’altra sera in faccia a Verdini la sua rabbia: «Mi hai portato in un vicolo cieco». No, lo portò al Nazareno, dove Renzi prima lo adulò, «qui sono circondato da milanisti», poi lo dileggiò alle spalle: «Voleva Amato, allora mi son fatto vedere con Cantone e si è messo paura che lo volessi davvero candidare al Quirinale». Un anno dopo a Berlusconi è chiaro che quel patto non era la sua «legittimazione». Era una gabbia da cui ora è difficile uscire. Infatti ha rotto lo specchio, non il patto.

trattoda www. corriere.it